Cristina Acquapace e i cromosomi di Dio

Io credo fortemente che Gesù ha mille volti. Quindi, chi me lo dice? Magari Gesù è anche Down…». Teologa e ironica, spirituale e pungente. Cristina Acquistapace è unica. Ma dal suo punto di vista diciamo una cosa banale: tutti siamo unici. E’ che lei ha un cromosoma in più e una marcia in più. Così per una volta sul tavolo dei relatori siede una persona con la sindrome di Down: Cristina, appunto. E tutti noi, con un cromosoma in meno (e molte volte una marcia in meno), siamo là ad ascoltare, a pensare, a imparare. Com’è giusto che sia. Perché forse è vero che Dio, del quale l’uomo custodisce l’immagine, di cromosomi ne ha 47 e uno – insieme alla costola di Adamo? – in molti di noi si è perso per strada.

I discepoli andavano a due a due. Quarantun anni, primogenita di tre fratelli («ma sono diverse le figure che, vita facendo, per lei sono diventati fratelli», confida mamma Marilena), vergine consacrata dal 2006, da poco più di cinque anni Cristina vive in un suo appartamento, sopra la casa dei genitori. E’ autonoma, per quanto possibile: a limitarla è la vista e un disturbo a livello di muscoli e ossa, solo di recente diagnosticato. Oltre che mamma, Marilena, è anche la sua “autista”, visto che la accompagna agli incontri cui la invitano. Per capire il tipo, una volta Cristina era seduta sul sedile posteriore e dormiva. La madre l’ha svegliata, per ricordarle che doveva prepararsi qualcosa da dire. E si sente rispondere: «Lo sai che Gesù voleva che i discepoli andassero a due a due… E c’è un motivo: tu guida». E si rimette a dormire. (Alla conferenza ha saputo benissimo cosa dire…).
Una premessa, tanto per sgombrare il campo dai pregiudizi che chi legge può avere: il virgolettato che seguirà è fedele al parlato di Cristina. Parla infatti spedita e forbita, più di altri conferenzieri che al giornalista è capitato di ascoltare.
Prima lezione: «La vita è meravigliosa: vale sempre la pena viverla, cercando il bene e il bello. La vita è anche difficile, a volte: ci sono le difficoltà, il dolore, le sofferenze. Ma se mettiamo una corazza per tenere fuori queste cose… teniamo fuori anche le gioie e la bellezza della vita. E non cresceremo mai».

Chi è il vero stupido. Seconda lezione: «C’è gente ignorante che vive, germoglia e fiorisce in ogni campo. Gente che pensa che chi è down sia stupido o scemo. Se uno pensa questo di te, il vero scemo è lui. Non permettiamo a nessuno di trattarci come degli stupidi: non siamo persone di serie B, né di C1. Invito le mamme che hanno questo tipo di problema a continuare la loro piccola lotta contro queste persone e fare in modo di arrivare alla vittoria, per renderle inoffensive e innocue. E’ quello che abbiamo tentato di fare anche noi come famiglia, come una squadra che sa lavorare insieme e che vive la vita nonostante tutto: nonostante le persone ignoranti, nonostante le difficoltà, nonostante le fatiche, che sono umane, che comunque ci sono e ci saranno sempre».
Terza lezione: «Ma il segreto è saper andare oltre queste cose. Perché la vera risurrezione è andare oltre, è guardare avanti, è non guardare più alla vita vecchia di prima; è un andare avanti senza avere rimpianti, un proseguire il cammino, con una coscienza nuova, una coscienza diversa, da persone libere. Perché si può ancora andare avanti, nonostante tutto: come abbiamo tentato di fare noi».

«Ho conosciuto Gesù, so quel che dico…». La quarta lezione riguarda il suo stato attuale di vita, nato da una vocazione inattesa: «Durante la mia adolescenza avevo scoperto anche l’amore, che è una parte importante della vita: è normale incontrarlo prima o poi. L’amore è amare ogni cosa sulla quale si posano gli occhi; è un guardare con il cuore. Quindi è un sentimento, un’emozione che fa parte di tutti gli esseri umani, che hanno un cervello per ragionare e un cuore per amare. Solo che con il tempo si cresce, si diventa maturi e arriva il momento delle scelte, delle decisioni importanti che cambiano la vita. Specialmente quando si incontra Gesù nella nostra vita. Anch’io l’ho incontrato e quindi so quello che dico: non parlo di una cosa sconosciuta, ma di una cosa che ho vissuto sulla mia pelle e dentro di me profondamente. Io l’ho visto negli occhi di una bambina africana».
E’ in Kenya, infatti, che Cristina ha iniziato la sua seconda vita, quando ha raggiunto la zia, religiosa delle Carmelitane, nella missione in cui opera. «Non immaginavo certo di trovare quello che ho trovato. Non immaginavo certo di sentire nel mio cuore una vocazione. Non immaginavo di sentire la voce di un Padre che mi chiamava a un disegno di amore, preparato per me».
Non è stato un cammino scontato. «All’inizio ho detto: perché io, con tutti i problemi che ho, le difficoltà, le fatiche… Ma ho sentito come una voce che mi diceva: l’uomo guarda all’apparenza, Dio guarda il cuore. Di conseguenza ho detto: va bene, ma dovrai aiutarmi».

La chiarezza di una vocazione. E’ maturata così «una scelta consapevole, fatta con la mia testa e ragionata con il mio cuore. Ho avuto la chiarezza di una vocazione e di un disegno: ero chiamata a consacrarmi al Signore totalmente, ma non sapevo in che modo, in quale forma. Nel matrimonio? In una consacrazione religiosa? Ma ho trovato ad Assisi un altro modo di seguire il Signore: essere consacrati pur conservando la propria laicità». E’ così che Cristina è entrata nell’ordine delle vergini consacrate nella chiesa diocesana di Como.
«Non è stato un cammino facile, al contrario. Quando ne ho parlato in casa, ho trovato difficoltà a far capire che io avevo una mia vita e dovevo viverla pienamente, rispondendo al Signore che mi chiamava. E poi non è stato facile nemmeno farlo capire alle persone un pochino meno intelligenti che ci sono anche all’interno della Chiesa. Visto che la Chiesa è umana, visto che è fatta da persone… come in tutte le istituzioni anche lì ci sono un po’ di pregiudizi, preconcetti. Ma ho incontrato anche persone molto aperte, che hanno saputo consigliarci per il meglio e ci hanno dato gli indirizzi giusti ai quali andare a bussare. Così alla fine di questo percorso, il 25 marzo 2006, mi sono consacrata totalmente al Signore, con il rito proprio di quest’ordine laico, che non prevede il velo, non prevede la vita con le altre consacrate. Prevede una vita di preghiera (perché se marito e moglie non si incontrano mai il matrimonio va da sé che cade…), prevede una vita fraterna con le altre persone, prevede un lavoro per mantenersi; e una vita sobria, giusta, equa, dove la consacrata è chiamata ad accontentarsi dello stipendio che porta a casa».

Talenti da sfruttare. L’ultima lezione è un messaggio di impegno e di speranza. «Nell’attesa di arrivare al finale, alla vita eterna – conclude Cristina, davanti a un’assemblea composta da persone con la sindrome di Down, dai loro genitori e da altri ascoltatori – viviamo cercando di fare il possibile per aiutare gli altri, per essere persone adulte e mature che scelgono di rendere la vita in questo mondo un po’ più umana, un po’ più giusta per tutti. Questo nonostante i propri limiti. Perché comunque ognuno di noi ha propri talenti e deve sfruttarli al massimo per dare i propri frutti. Ogni albero ha bisogno del suo tempo. Quindi vi incoraggio a prendere i vostri tempi, accettare i limiti, accettare di essere noi stessi e camminare sempre avanti».

Paolo Fusco
Tratto da GENTE VENETA, n.25/2014

 

La storia di Cristina Acquistapace, donna laica consacrata che ha deciso di donarsi agli altri

22 marzo 2013

13 novembre 2013

Cristina Aquistapace sul Sagrato di Piazza San Pietro

Albergo Etico operazione compiuta!

scrivimi a: sondrio@albergoetico.it

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1.CNV Centro nazionale vocazioni

Video presentazione  di Cristina Acquistapace

Quanti pani avete… andate a vedere       clicca per vedere

2.Testimonianza di Cristina Acuistapace all’I.I.S Q. Sella Biella Giovedì 3 Maggio 2012

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3.Testimonianza Cristina Acquistapace Asilo S. Giulio 23_05_2012.wmv    clicca per vedere

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A 33 anni è entrata nell’Ordo Virginium. Lavora e fa teatro
La madre: “Ora pensa d’andare in Kenya, ci riuscirà”

Cristina, ragazza down, si fa suora
“Non volevo essere felice da sola”

di ENRICO BONERANDI

<B>Cristina, ragazza down, si fa suora<br>Non volevo essere felice da sola </B>

Cristina durante la cerimonia
ROMA – Il suo sogno è di lavorare in Africa come missionaria, mettendo a frutto gli studi da crocerossina. Un altro sogno, che si realizzerà presto, a fine agosto, è di portare il suo gruppo al meeting europeo di Playback Theatre – una tecnica teatrale interattiva basata sull’improvvisazione – a Longiano, vicino a Rimini. Cristina Acquistapace ha 33 anni ed è una suora. Una suora con la sindrome di down.

Nel viso e nei movimenti i segni del suo stato sono palesi. Ma altrettante forte è la sua voglia di vivere senza disperazioni, anzi, con entusiasmo. Non è che la Chiesa apra le braccia facilmente a persone che presentino problemi come i suoi: prima si vuole essere ben certi dell’autenticità delle vocazioni. Passano anni, prove, verifiche, anche severe. Da parte sua, Cristina ha cercato a lungo l’ordine più adatto. “Non voglio entrare in una comunità dove mi trattino come una poveretta”, ha confidato alla madre. Ha preso informazioni, ha conosciuto altre suore, ha fatto colloqui, un po’ come quando si cerca un lavoro o si sceglie una facoltà. La scorsa primavera, la consacrazione nell’Ordo Virginum – un ordine laico che non richiede la dimora in monastero – con una cerimonia affollatissima nella chiesa del Sacro Cuore di Sondrio, alla presenza del vescovo di Como, Alessandro Maggiolini. Cancellate le perplessità sia in famiglia che in Curia. “La sindrome di down per me non è stata né una maledizione né una benedizione – spiega Cristina – ma il modo per capire che sono portata per delle cose e non per altre. E sono pronta ad affrontare gli impegni che ho assunto”.

La sua è una storia straordinaria (raccontata ieri dall’agenzia “Redattore Sociale”). I medici non lasciano speranze su miglioramenti fisici significativi. Il più grosso handicap è la vista. Ma per fortuna le capacità psichiche sono buone, grande la voglia di comunicare con gli altri, rocciosa la volontà. Elementari e medie “normali”, poi una scuola differenziale dove tra le altre cose impara il lavoro di sarta. Ma la vista non la sorregge, peggiora. A 19 anni Cristina fa qualche lavoretto, ma sogna di viaggiare, di conoscere gente e posti nuovi. Così convince la madre a lasciarla andare in Africa, dove una zia suora è missionaria. Ed è in Kenya, mentre dà una mano nell’ospedale gestito dalle religiose, che matura la sua vocazione: “Non voglio essere felice da sola”.

A casa – dove, tra l’altro, a parte la zia suora, non è che siano praticanti – pensano a un capriccio destinato a passare. Pure la zia non è d’accordo. Ma Cristina tiene duro. Ogni anno, per un mese, torna in Kenya e mostra che, nonostante i suoi limiti, può essere d’aiuto. Quello che tutti, anche i più diffidenti, finiscono per apprezzare in lei è l’equilibrio e la fiducia che riesce a infondere in chi soffre. Racconta Marilena, la madre: “Mia sorella suora ha chiamato e ci ha detto: “non possiamo far finta di niente. Cristina ha una vocazione sincera. Abbiamo il diritto di dirle di no, solo a causa di quel cromosoma in più che si porta dentro?””.

Sono dovuti passare altri cinque anni, ma alla fine la tenacia di Cristina è stata premiata. Continua ad abitare in famiglia, ha un lavoro part-time in una scuola materna e una serie incredibile di attività, tra cui appunto il teatro. Oltre, ovviamente, agli esercizi spirituali con le consorelle. Recentemente ha accompagnato un gruppo di malati a Lourdes e ha visitato la Terra Santa. Un ciclone. Con le persone affette dalla sua sindrome lavora solo se non vivono in un ghetto separato dal mondo. Nei suoi pensieri, però, c’è sempre l’Africa. “È felice e realizzata, la persona più equilibrata della famiglia”, dice ridendo la madre. Il Kenya? “Prima o poi la prenderanno. Quando si mette in testa un progetto, non la ferma nessuno”.
(3 agosto 2006)

“Che fine avrei fatto?”

di  Claudio Arrigoni

Le parole sono arrivate quasi inaspettate, alla conclusione di un servizio tv alla scorsa Domenica In sulla sua storia: “Meno male che sono nata nel ’72, altrimenti chissà che fine avrei fatto per l’amniocentesi…”. Cristina è una suora laica dell’Ordo Virginium, passa periodi in missione in Africa. E’ nata con sindrome di Down.

Si può ignorare questa frase. Si può banalizzarla. Ma anche si può, e si dovrebbe, riflettere. Cercando di non farsi influenzare da ideologie, politica e religioni. O anche da meri dati statistici.

Le parole di Cristina Acquistapace mi hanno colpito, in particolare perché giunte da chi vive una condizione di oggettiva debolezza in ambito sociale. E fatto pensare. Riflessioni e domande che vorrei condividere.

Arrivano poche settimane dopo la prima Giornata Mondiale sulla Sindrome di Down voluta dall’Onu e la diffusione anche in Italia di una notizia data mesi fa dal quotidiano danese Berlingske , secondo la quale in Danimarca, seguendo l’attuale andamento di riduzione percentuale di nati con sindrome di Down, nel 2030 questa sindrome sarà scomparsa. Chiaramente non perché si sia arrivati a correggere l’anomalia cromosomica, ma solo perché, conosciuta la presenza di Trisomia 21 attraverso la diagnosi prenatale, le gravidanze vengono interrotte. Cosa che avviene anche riguardo a patologie o disabilità più o meno gravi.

L’aspettativa e la speranza quando si aspetta un figlio è quella che sia sano e che possa avere una vita il più felice possibile. Non si tratta, e non è questo l’ambito, di mettere in discussione leggi e diritti acquisiti, la possibilità di aborto e ancora meno quella della diagnosi prenatale. Viene da chiedersi quale debba essere l’uso e il fine. La diagnosi prima della nascita può aiutare a correggere eventuali anomalie, a preparare la famiglia ad accogliere un figlio con problemi fisici o intellettivi, a mettere la donna nella condizione di poter scegliere se continuare la gravidanza di fronte a un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica. La diminuzione costante di nascite di persone con sindrome di Down e di altre alterazioni cromosomiche o patologie di diversi tipi può far pensare a una deriva eugenetica? Una selezione delle persone certamente non imposta in maniera autoritaria, ma che alla fine ci si accorge avvenga? Ritorna una domanda che nasce da lontano: quale vita è indegna di essere vissuta?

Una riflessione sulla disabilità e su una società che prepari ad accogliere non smette di essere attuale, partendo in questo caso dalle parole di una donna con sindrome di Down che si pone domande sulla sua condizione: che fine avrei fatto?

 

Un solo criterio permette di valutare la qualità della civilizzazione umana: il rispetto che prodiga nei riguardi dei suoi figli più fragili. Una società che non lo comprende è destinata a scomparire.

Jérome Lejeune, pioniere della Trisomia 21

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